venerdì 20 luglio 2012

Noi, gli Indigeni. E la Difesa dei Beni Comuni

"All'alba della rivoluzione industriale, ai lavoratori statunitensi importava soltanto salvare se stessi nel percorso che li iniziava alla conquista della ricchezza." La conquista della ricchezza, definita allora il nuovo spirito del tempo, avrebbe prodotto gli effetti di ciò che Bauman, dopo qualche secolo, avrebbe chiamato "Capitalismo Parassitario": la conquista (per l'appunto) dei pascoli vergini: un progressivo impadronirsi dei "beni comuni" ormai inutilmente protetti dalla Carta della Foresta. E, osserva Noam Chomsky su Internazionale di questa settimana (da cui, di seguito, dopo lo spunto iniziale di questa mia riflessione, riprendo qualche altro brano), un contestuale ed inarrestabile lavaggio del cervello ha fatto il resto "instillando questo nuovo spirito del tempo; un processo guidato da quei settori del marketing che Thorstein Veblen, studioso di economia politica, chiamava induzione dei bisogni: indirizzare le persone verso le cose superficiali della vita. In tal modo le persone sono spinte a ricercare solo il vantaggio personale, e distolte dal pericoloso tentativo di pensare con la loro testa, agire insieme e sfidare l’autorità."

Quello del Capitale è lo spettro di cui, in una mirabile analisi dell'economia della Conoscenza, hanno parlato anche Bellucci e Cini in un interessantissimo saggio: se si vuole perseguire la de-mercificazione dei beni immateriali, dicono gli autori, bisogna reintrodurre la classe dei "beni comuni", diventata un miraggio dopo le famose enclosure delle terre in Inghilterra ad opera, manco a dirlo, dei Capitali. Un proposito, una teoria, che si tiene evidentemente anche sulle tesi di Elinor Ostrom, che, con l'opera vincitrice del Nobel per l'economia nel 2009, ha dimostrato la "superiorità dei beni comuni gestiti dai loro utenti".


Con qualche passaggio logico, qualche tempo fa "ho teorizzato" che i Quotidiani Online sono un bene comune. Ora, se è vero quel che ancora Chomsky dice ("alla testa del movimento per affrontare la crisi ambientale globale e la distruzione dei beni comuni sono, in tutto il mondo, le comunità indigene"), allora - essendoci tutti riconosciuti nella definizione di comunità indigena - tocca a noi opporci all'esproprio che il Capitale, rappresentato dagli inserzionisti e dalla loro pubblicità, ogni giorno mette in atto facendo dell'informazione soltanto lo strumento della sua linfa vitale: "l'induzione dei bisogni".

Non ho nessuno strumento per riuscire ad ampliare la piramide di Maslow; ma credo sia difficile per chiunque individuare un bisogno da aggiungere alla scala ideata dallo psicologo statunitense che noi sia "superficiale", cioè artificialmente creato per soddisfare l'appetito di un azionista.

Sia chiaro però: qui non si sta negando l'Impresa (compresa quella Editoriale) ma semplicemente esprimendo la speranza che se ne cambi l'impostazione (Yunus docet) con l'obiettivo di fare luce oltre il fumo negli occhi dell'"induzione dei bisogni"; perchè tutti riconoscano solo quelli autentici (e si approccino criticamente a tutti gli altri), quelli che ci rendono cittadini e, in quanto tali, difensori di un bene comune.

In quest'ottica, l'unico Marketing che riesco a concepire è quello dell'Informazione e della Conoscenza; il bisogno indotto, in tal caso, sarebbe quello nobile di tornare a sentirsi parte di un'autentica comunità indigena, quella di cui parla Chomsky.

Che poi, la comunità indigena, siamo noi, i cittadini. Cioè lo Stato.

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